Emessa la circolare ministeriale sulla CIGS per cessazione dell’attività
Il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 15/2018, ha fornito chiarimenti in merito alla reintroduzione, per gli anni 2018, 2019 e 2020, della CIGS per cessazione dell’attività, a mezzo del Decreto Genova, entrato in vigore il 29 settembre 2018.
In particolare, i tecnici del Ministero, in primo luogo, hanno chiarito che il suddetto ammortizzatore sociale può essere concesso per massimo dodici mesi in deroga alle regole in materia di durata della prestazione previste dagli articoli 4 e 22 del Dlgs n. 148/2015.
Nella circolare, poi, è stato precisato che la CIGS per cessazione dell’attività o per le impresa che sono in procinto di cessarla rientra nella CIGS per crisi aziendale.
Presupposto indefettibile è la sussistenza di una delle tre condizioni previste dallo stesso articolo 44 del Dl 109/18, illustrate nella circolare ministeriale.
Secondo la prima condizione devono sussistere delle concrete prospettive di cessione dell’azienda, con il conseguente piano di riassorbimento del personale. In sostanza, nell’accordo sindacale stipulato dinnanzi al Ministero del Lavoro dovrà essere previsto un piano di cessione dell’attività, con trasferimento del personale ex articolo 2112 del Codice civile, e quindi un piano per il riassorbimento del personale sospeso.
In alternativa, la Cigs per cessazione può essere autorizzata in presenza di un piano di reindustrializzazione, presentato dalla medesima azienda richiedente, dall’eventuale impresa acquirente o dallo stesso ministero dello Sviluppo economico.
L’ulteriore condizione che dà diritto di accesso a questa specifica ipotesi di Cigs è il coinvolgimento dei lavoratori in esubero in specifici percorsi di politica attiva del lavoro, presentati dalla Regione/i in cui abbia sede l’impresa cessata.
L’accesso all’ammortizzatore è subordinato alla stipula di un accordo con le organizzazioni sindacali dinnanzi al ministero del Lavoro.
In quella sede deve essere discusso, documentato e poi formalizzato il piano di sospensione/riduzione dei lavoratori collegato alla cessazione dell’attività e, contestualmente, quello di riassorbimento degli stessi lavoratori unitamente alle altre misure di gestione delle eccedenze.
Può partecipare all’accordo anche il ministero dello Sviluppo economico, il quale, con funzione di garante assicura il costante monitoraggio del buon esito dell’operazione societaria di cessione (e può altresì dichiarare di essere in possesso di proposte di terzi di acquisizione dell’azienda cessata) e l’effettiva realizzabilità del piano di industrializzazione.
Anche la Regione può essere coinvolta in sede di stipula per illustrare le misure di politica attiva destinate ai lavoratori in esubero.
L’accordo deve altresì contenere l’indicazione del relativo onere finanziario, in quanto la sottoscrizione dello stesso è subordinata alla verifica della disponibilità delle risorse finanziarie.Circolare Ministero 15 del 2018 (CIGS cessazione attività)
A seguito della stipula, l’impresa, come sempre, dovrà presentare apposita richiesta al Lavoro attraverso la procedura telematica Cigsonline.
Leggi di più...Con il Decreto Genova prorogata fino al 2020 la CIGS per cessazione attività
Il Decreto Genova (D.L. 109/2018), all’art. 44, ha disposto la proroga della Cassa integrazione guadagni straordinaria per cessazione di attività produttiva anche nel biennio 2019-2020, entro i limiti delle risorse residue già assegnate ai medesimi fini dall’articolo 21, comma 4, del Dlgs n. 148/2015.
L’intervento della Cigs per crisi, nella quale rientra la proroga di quella per cessazione dell’attività produttiva, può essere concessa fino ad un massimo di dodici mesi complessivi, previo accordo stipulato in sede governativa presso il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali in presenza del ministero dello Sviluppo economico e della Regione interessata.
Secondo il testo normativo l’autorizzazione della Cigs può essere concessa allorquando l’azienda abbia cessato o cessi l’attività produttiva e alternativamente:
- sussistano concrete prospettive di cessione dell’attività con conseguente riassorbimento occupazionale, secondo le disposizioni del decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali del 25 marzo 2016, numero 95075, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero 120 del 24 maggio 2016 (a cui aveva fatto seguito la circolare ministeriale 11 luglio 2016 numero 22);
- sia possibile realizzare interventi di reindustrializzazione del sito produttivo;
- sia possibile salvaguardare il personale attraverso specifici percorsi di politica attiva del lavoro posti in essere dalla Regione interessata.
La Cigs prevista dall’articolo 44 del Dl 109/2018 risulta essere concessa in deroga alla durata complessiva del trattamento nell’ambito dell’unità produttiva interessata, sia per quanto concerne il periodo massimo di concessione della cassa integrazione ordinaria e straordinaria nel quinquennio mobile (articolo 4, comma 1, Dlgs 148/2015), sia per quanto attiene al periodo massimo di ricorso alla causale di crisi aziendale (articolo 22, comma 2, del Dlgs 148/2015).
L’intervento sarà, tuttavia, concesso unicamente in caso d’avanzo delle risorse già assegnate dall’articolo 21, comma 4, del Dlgs 148/2015, pari a 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016, 2017 e 2018.
Allo scopo di verifica della spesa, gli accordi governativi dovranno essere trasmessi al ministero dell’Economia e delle Finanze e all’Inps per il controllo mensile dei flussi delle uscite relative all’erogazione delle prestazioni.
Qualora dalla verifica dovesse emergere il raggiungimento – anche in termini prospettici – dei limiti di spesa, non potranno essere stipulati ulteriori accordi.
Leggi di più...Il reiterato rifiuto di adempiere la prestazione richiesta costituisce giusta causa di licenziamento
La Suprema Corte, con sentenza n. 22382/2018, ha statuito che il rifiuto reiterato di adempiere una prestazione richiesta costituisce grave insubordinazione e, dunque, legittima il licenziamento per giusta causa.
In particolare, precisa la Corte, “Con riferimento alla disubbidienza agli ordini ed alle direttive, che il lavoratore può chiedere giudizialmente l’accertamento della legittimità di un provvedimento datoriale che ritenga illegittimo, ma non è autorizzato a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via d’urgenza), di eseguire la prestazione lavorativa richiesta, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 cod. civ., e può legittimamente invocare l’eccezione di inadempimento, ex art. 1460 cod. civ., solo nel caso in cui l’inadempimento del datore di
lavoro sia totale (cfr., tra le più recenti, Cass. 19 gennaio 2016, n. 831 e Cass. 26 settembre 2016, n. 18866)”.
Con riferimento alla nozione di insubordinazione, i Giudici di legittimità nell’accoglierne un’accezione ampia, affermano che “quest’ultima, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori (e dunque ancorata, attraverso una lettura letterale, alla violazione dell’art. 2104, co. 2, cod. civ.), ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (così Cass. 27 marzo 2017, n. 7795)“.
La Corte di legittimità, infine, nel valutare la proporzionalità del recesso, valorizza il ruolo sindacale ricoperto dal lavoratore ritenendo che, a fronte della reiterata insubordinazione, la carica sindacale rivestita dal dipendente sottoposto ad azione disciplinare generi un particolare «disvalore ambientale», in quanto assurge a modello diseducativo per gli altri lavoratori dell’impresa, i quali si potrebbero sentire a loro volta disincentivati dall’osservanza dei doveri inerenti la prestazione lavorativa.
Cass. 22382 del 2018 (reiterato rifiuto di espletare le mansioni e giusta causa)
Leggi di più...Jobs Act: costituzionalmente illegittimo l’indennizzo per i licenziamenti basato sulla sola anzianità
Il criterio della sola anzianità lavorativa previsto dall’art. 3, comma 1, D.lgs. n. 23/15 (Jobs Act), per quantificare gli indennizzi in caso di licenziamento ingiustificato è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, dalla Consulta, con dispositivo pubblicato nella data di ieri.
La norma originaria del 2015 (articolo 3, comma 1, del Dlgs 23) prevedeva, in caso di licenziamento illegittimo, una indennità “pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità“.
Il decreto dignità, in vigore dallo scorso 14 luglio, senza modificare il meccanismo di calcolo, ha aumentato, del 50%, gli importi degli indennizzi, portando a sei mensilità , il minimo, e a 36, il massimo.
Su questo quadro normativo – oggi vigente – si è innestata la decisione di ieri della Consulta, chiamata in causa dal tribunale di Roma. I giudici di legittimità hanno confermato la scelta del Legislatore del 2015, quella cioè di elidere la tutela reale (ferme le ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo od orale) in funzione dell’integrale monetizzazione della tutela prevista per il lavoratore (illegittimamente) licenziato. In sostanza, la tutela indennitaria è, al momento, rimasta intatta. Restano, allo stesso modo, in vigore gli importi degli indennizzi, da sei a 36 mensilità.
Ad essere oggetto di censura, perché ritenuto in contrasto con la Costituzione, è stato invece il criterio di determinazione degli indennizzi stessi tra il minimo ed il massimo previsti dal legislatore. Per i giudici di legittimità, infatti, la previsione di un’indennità crescente in funzione «della sola anzianità di servizio del lavoratore» è «contraria ai principi di ragionevolezza e uguaglianza, e contrasta, anche, con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Carta fondamentale».
Occorre ora attendere le motivazioni della sentenza per conoscere l’effettiva portata della declaratoria di incostituzionalità parziale dell’art. 3, comma 1, D.lgs. n. 23/2015.
C’è, comunque, il fortissimo rischio di un ritorno alla totale discrezionalità dei Magistrati, con conseguente incertezza su esiti e costi dei licenziamenti, a danno di imprese e lavoratori.
Attualmente, in caso di licenziamento, alla luce della sentenza della Consulta, il Giudice potrebbe quantificare l’indennità da 6 a 36 mensilità, secondo criteri non fissati dal legislatore e, dunque, secondo il suo prudente apprezzamento, magari utilizzando per analogia quelli previsti dalla Legge Fornero e, prima ancora, dall’art. 8 L. 604/66, vale a dire: dimensioni aziendali, anzianità lavorativa e circostanze concrete.
Leggi di più...Reintegra in caso di violazione del termine previsto dal CCNL per adottare il licenziamento
La Suprema Corte, con sentenza n. 21569/2018, ha statuito il principio secondo cui la violazione del termine previsto dal CCNL per l’adozione del provvedimento disciplinare del licenziamento per giusta causa, determina l’applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, L. 300/70, allorquando le parti sociali prevedano che, decorso inutilmente il termine fissato, le giustificazioni del lavoratore si intendono accolte.
I Giudici di legittimità, in particolare, hanno considerato insussistente il fatto contestato in presenza della finzione giuridica dell’accettazione delle giustificazioni, in caso di mancata adozione del licenziamento nel termine fissato dal CCNL, e, dunque, non applicabile la tutela indennitaria per le violazioni procedurali, di cui all’art. 18, comma 6, L. 300/70.
La posizione espressa potrebbe determinare incertezze in merito alla sanzione applicabile in ipotesi di violazione del termine per l’irrogazione della sanzione disciplinare previsto dal CCNL, in quanto l’individuazione della tutela applicabile dipenderebbe dalla esclusiva volontà delle parti sociali, al momento della determinazione, in sede di stipula del CCNL, delle conseguenze della violazione del termine contrattuale.
Cass. 20742 el 2018 (licenziamento ritorsivo, motivo unico ed onere prova)
Leggi di più...Quando è lecito per il datore di lavoro il ricorso all’investigatore privato?
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21621/2018, ha sancito il principio secondo cui il datore di lavoro può legittimamente ricorrere all’ausilio di un investigatore privato o, più in generale, di soggetti esterni all’azienda, solo per accertare condotte illecite del dipendente che non costituiscano mero inadempimento agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. In quest’ultimo caso, le uniche forme lecite di controllo sono quelle interne disciplinate dall’art. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori.
Nel caso in esame, il datore di lavoro aveva incaricato un’agenzia investigativa di verificare alcune condotte illecite del proprio dipendente addetto al sistema di rilevazione delle presenze. All’esito del controllo era emerso che il dipendente aveva alternato/manomesso il suddetto sistema, facendo fittiziamente figurare la propria presenza in servizio, in giornate in cui era assente.
Il ricorso del lavoratore veniva rigettato sia in primo che in secondo grado, sul presupposto che l’aver fittiziamente fatto risultare la propria presenza sul posto di lavoro integrava un reato in danno al datore di lavoro, legittimamente accertabile mediante ricorso ad un investigatore privato.
La Suprema Corte, nell’allegata sentenza, ha ribaltato l’esito dei giudizi di merito, ritenendo che il controllo avesse ad oggetto il rispetto dell’orario di lavoro da parte del dipendente e, dunque, un inadempimento agli obblighi discendenti dal contratto di lavoro, accertabile solo con gli strumenti di cui agli artt. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori.
La sentenza non pare, tuttavia, condivisibile, in quanto la condotta complessiva contestata al lavoratore non era limitata ad un inadempimento (mancato rispetto dell’orario di lavoro) ma integrava la fattispecie penale della truffa ai danni del datore di lavoro integrata dalla manomissione del sistema di rilevazione delle presenze, al fine di risultare fittiziamente presente sul posto di lavoro e di ottenere ingiustificatamente il pagamento della retribuzione.
Cass. 21621 del 2018 (legittimo ricorso ad investigatore privato)
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Immutabilità contestazione disciplinare e tutela reintegratoria
La Suprema Corte, con la sentenza n. 21265/2018, ha statuito che, in caso di violazione del principio di immodificabilità dei fatti oggetto di contestazione, trova applicazione la tutela reintegratoria attenuata, di cui all’art. 18, comma 4, L. 300/70 e non quella indennitaria debole prevista dal comma 7 della medesima norma in caso di violazione procedurali.
In particolare, nel caso posto al vaglio dei Giudici di legittimità, il datore di lavoro contestava al dipendente l’assenza ingiustificata per oltre tre giorni consecutivi, salvo richiamare nella lettera di licenziamento l’art. 41, lettera c, del Ccnl applicabile (recidiva nelle mancanze del dipendente).
Il Tribunale di Lecce, sia in sede sommaria che in sede di opposizione, rilevata la modifica dei fatti posti a fondamento della contestazione disciplinare, e, dunque, l’illegittimità del licenziamento, riteneva di applicare la tutela per i vizi procedurali di cui all’art. 18, comma 7, L. 300/70, condannando il datore di lavoro al pagamento della misura massima di 12 mensilità.
Proposto reclamo dal lavoratore, la Corte di Appello di Lecce, in riforma della sentenza di primo grado, ritenendo che la modifica del fatto contestato determinasse la insussistenza della stesso, disponeva la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro, con condanna al pagamento di 12 mensilità, ai sensi dell’art. 18, comma 4, L. 300/70.
La Cassazione, a sua volta, ha confermato tale lettura, escludendo che nel caso in questione potesse applicarsi il regime sanzionatorio delle violazioni meramente formali e procedurali. Nel caso in questione, osservano i giudici di legittimità, il fatto oggetto del licenziamento non coincide con quello contestato, con conseguenza insussistenza di quest’ultimo.
Cass. 21265 del 2018 (violazione princioio immutabilità contestazione e tutela reintegratoria)
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Licenziamento ritorsivo: onere della prova a carico del lavoratore
La Suprema Corte, con la recente sentenza n. 20742/2018, ha ribadito che ricade sul lavoratore l’onere di provare la natura ritorsiva e/o discriminatoria del recesso.
Nel caso in esame, in particolare, un dirigente veniva licenziato per alcune mancanze. Nella fase sommaria il tribunale riteneva ingiustificato il licenziamento ma, in assenza di prova certa del motivo ritorsivo, condannava il datore di lavoro ad un risarcimento economico nei confronti del lavoratore. Nel giudizio di opposizione, invece, il Tribunale riteneva il provvedimento ritorsivo e condannare il datore di lavoro a reintegrare il dipendente. Decisione poi confermata dalla Corte d’appello.
La Corte di cassazione, però, accogliendo le censure sollevate dall’azienda, ribadisce che «l’onere di dimostrare l’intento discriminatorio, idoneo a configurare la nullità del recesso…è posto a carico del lavoratore». Mentre, rilevano i Giudici di legitimità, nella sentenza della Corte di Apello, «non è dato evincere alcun accertamento, né in merito all’effettiva causale del recesso, né in merito all’avvenuto raggiungimento in giudizio della prova della ritorsione – quale motivo unico e determinate – offerta dal dirigente licenziato».
La Suprema Corte, dunque, chiarisce, ancora una volta, che la sussistenza di un motivo illecito non risulta rilevante in caso di concorso con un motivo lecito, dovendo l’intento ritorsivo o discriminatorio essere unico e determinante.
Cass. 20742 el 2018 (licenziamento ritorsivo, motivo unico ed onere prova)
Leggi di più...Appalto illecito: no alla maxi sanzione per lavoro nero
L’INL con la recente circolare 10/2018, ha espressamente escluso l’applicazione della maxi sanzione per lavoro nero in caso di accertamento della sussistenza di un appalto illecito, richiamando il precedente interpello n. 27/2014 in tema di appalto irregolare e distacco illecito.
Nell’interpello, la direzione sosteneva che la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore non è sempre “automatica” ma può dipendere dall’iniziativa del lavoratore di ricorrere al giudice quando la somministrazione di lavoro sia avvenuta al di fuori dei limiti e delle condizioni previste dagli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a) e b), c) e d). Una tale previsione è contenuta, del resto, anche nell’articolo 30, comma 4-bis, del Dlgs 276/2003 per il distacco illecito e nell’articolo 29, comma 3-bis, del Dlgs 276/2003 per l’appalto illecito.
Il Ministero precisava anche che, secondo l’articolo 27, comma 2 «tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione». Quindi – si legge nell’interpello –l’applicabilità di tale disposizione esclude “in radice” la possibile applicazione delle sanzioni per lavoro “nero” e delle altre sanzioni amministrative legate agli adempimenti di costituzione e gestione del rapporto di lavoro, a prescindere dall’iniziativa giudiziale del lavoratore.
In entrambi i casi, si tratta di fattispecie del tutto distinte e peculiari, perché presuppongono che l’utilizzazione dei lavoratori sia avvenuta in forza di un accordo tra somministratore-distaccante e utilizzatore. Questo elemento, peraltro verificabile per l’esistenza di adempimenti retributivi e contributivi in capo al somministratore-distaccante, determina una peculiarità della fattispecie che non a caso trova una specifica disciplina sanzionatoria nell’ordinamento. In definitiva, il ragionamento proposto è incentrato sulla “tracciabilità” dell’esistenza del rapporto di lavoro e dei connessi adempimenti retributivi e contributivi e sulla opportunità di non assimilare le fattispecie del lavoro “nero” con quelle della somministrazione irregolare e del distacco illecito.
Anche nel caso dell’appalto illecito, esiste una tracciabilità del rapporto di lavoro e degli adempimenti retributivi e contributivi, pur se facenti capo a un datore di lavoro che non è l’utilizzatore effettivo delle prestazioni.
Fonte: IlSole24Ore – Quotidiano del Lavoro
Leggi di più...Fondo di garanzia solo in caso di cessazione del rapporto di lavoro
La Suprema Corte, con la sentenza n. 19277/2018, ha reso una importantissima pronuncia con riferimento ad una fattispecie estremamente controversa, riguardante la possibilità di accesso al fondo dio garanzia per il TFR dei dipendenti che transitano da una impresa in procedura concorsuale alle dipendenze di una impresa acquirente del relativo complesso aziendale, a fronte di accordi ex art. 47, commi 4 bis e 5, L. 428/90 derogatori dell’art. 2112 c.c.
Ebbene, la Suprema Corte ha statuito che, in questi casi, allorquando non vi sia cessazione del precedente rapporto di lavoro, mediante il meccanismo del licenziamento e della successiva riassunzione, reso possibile dalla facoltà di deroga all’art. 2112 c.c., il passaggio diretto ed immediato alle dipendenze del cessionario, non consente l’accesso al fondo di garanzia, pur se il TFR risulta ammesso allo stato passivo dell’impresa cedente in procedura concorsuale.
Qualora, dunque, i dipendenti volessero accedere al Fondo di Garanzia, nell’ambito degli accordi ex art. 47, commi 4 bis e 5, L. 428/90, la tutela dei livelli occupazionali andrebbe realizzata mediante il meccanismo del licenziamento da parte del cedente e della riassunzione da parte del cessionario, così da realizzare il presupposto della cessazione del precedente rapporto di lavoro, imprescindibile per l’accesso alle prestazioni dell’Inps.
Cass. 19277 del 2018 (no Fondo Garanzia in caso di passaggio diretto per cessione aizenda in crisi)
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