Violazione criteri di scelta nel licenziamento individuale: tutela indennitaria
La Suprema Corte, con la sentenza n. 19732/2018, ha ribadito un importante principio in tema di tutela applicabile nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ritenuto illegittimo per violazione dei criteri di scelta, rientrante nel campo di applicazione dell’art. 18 L. 300/70, come modificato dalla Legge Fornero.
In particolare, la Corte, cassando la sentenza dei Giudici di Appello, ha statuito che la violazione dei criteri di scelta nell’individuazione del lavoratore da licenziare, a fronte di una generica esigenza di riduzione del personale fungibile addetto ad un determinato servizio, non integra l’ipotesi della “manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo” contemplata dall’art. 18, comma 7, L. 300/70, quale presupposto per la concessione della tutela reintegratoria.
Nel motivare il proprio convincimento, i Giudici di legittimità hanno richiamato i numerosi precedenti conformi, vale a dire: Cass. n. 14021/2016; Cass. n. 30323/2017 e Cass. n. 1373/2018).
All’uopo, può essere utile ricordare che, ai fini della legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, secondo la giurisprudenza ormai unitaria, il datore di lavoro è tenuto ad allegare e provare:
- l’effettiva sussistenza della ragione posta a fondamento del recesso (giustificato motivo oggettivo);
- il nesso di causalità tra la ragione stessa ed il lavoratore individuato come licenziando e, dunque, il rispetto dei criteri di correttezza e buona fede nell’individuazione di quest’ultimo (con possibilità di applicare, in via analogica ma non diretta, i criteri di cui all’art. L. 223/90);
- l’impossibilità di repechage.
Secondo l’orientamento maggioritario, solo l’insussistenza della ragione posta a fondamento del giustificato motivo può determinare l’applicazione della tutela reintegratoria, mentre gli altri vizi comportano l’applicazione della tutela indennitaria. Vi sono, tuttavia, alcune isolate pronunce che ritengono applicabile la tutela reintegratoria anche in caso di violazione dell’obbligo di repechage, sul presupposto che lo stesso integrarebbe un elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo. Quest’ultimo orientamento, tuttavia, è palesemente contrario alla lettera dell’art. 3 L. 604/66 che, nel definire il giustificato motivo oggettivo, non fa alcun riferimento all’obbligo di repechage.
Cass. 19732 del 2018 (violazione criteri di scelta e tutela indennitaria)
Leggi di più...Addio al pagamento in contanti della retribuzione: sanzioni fino a 5.000 euro
Dal primo luglio 2018 è entrata in vigore la previsione di cui all’art. 1, commi 910 e ss., della Legge di Bilancio 2018, che punisce con sanzioni da 1.000 a 5.000 euro i datori di lavoro che corrispondono retribuzioni o acconti in contanti ai propri dipendenti.
Diventa, dunque, obbligatorio corrispondere le retribuzioni mediante bonifico bancario, postale o altro strumento elettronico di pagamento.
La legge chiarisce, inoltre, che la firma apposta sul prospetto paga non costituisce prova del pagamento, proprio in ragione dell’obbligo di corrispondere la retribuzione con strumenti tacciabili. Questa disposizione rappresenta una importante novità nel panorama della gestione dei rapporti di lavoro, in quanto, almeno sino ad oggi, la giurisprudenza riteneva che la firma apposta sul prospetto paga “per ricevuta e quietanza” rappresentasse prova della corresponsione della retribuzione, salvo la facoltà per il dipendente di fornire la prova contraria. Con l’efficacia della nuova normativa, l’unica prova liberatoria per il datore di lavoro sarà la copia del bonifico o dell’assegno coincidente con il “netto” risultante dal prospetto paga.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con le note 458 del 22 maggio 2018 e 5828 del 4 luglio 2018 ha ribadito, da un lato, che la firma della busta paga non integra prova del pagamento della retribuzione e, dall’altro, che la violazione non può essere oggetto di diffida, trattandosi di un illecito non sanabile; sarà solo possibile ottenere la sanzione in misura ridotta pari ad €. 1.666,66.
Leggi di più...L’aggressione fisica conseguente ad un diverbio costituisce sempre giusta causa
La Suprema Corte, con sentenza n. 19013/2018, in riforma della statuizione della Corte di Appello, ha ritenuto, decidendo nel merito, costituente una giusta causa di licenziamento l’aggressione fisica perpetrata da un dipendente in danno ad un superiore gerarchico.
In particolare, nella fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte, un dipendente contestava la legittimità di un ordine di servizio impartitogli avente ad oggetto la modifica dell’orario di inizio della prestazione lavorativa, ne seguiva un diverbio litigioso con il superiore gerarchico che aveva predisposto l’ordine di servizio, nel corso del quale il lavoratore sferrava un pugno in faccia al superiore, che necessitava delle cure del Pronto Soccorso.
Orbene, contrariamente a quanto affermato dai Giudici del gravame, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la condotta in esame costituisse una ipotesi “di scuola” di giusta causa di licenziamento, in quanto integrante una condotta gravemente contraria al minimo etico ed ad ogni regola del vivere civile, oltre che illecito penale.
Cass. 19013 del 2018 (aggressione fisica superiore costituisce sempre giusta causa)
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Pubblicato in GU il Decreto Dignità: testo del DL e prime osservazioni
Di seguito il testo definitivo del Decreto Dignità pubblicato in data odierna in Gazzetta Ufficiale, tra le novità più importanti in materia di lavoro:
- riduzione da 36 a 12 mesi della durata massima dei contratti a tempo determinato privi di causale;
- dopo i primi 12 mesi, possibilità di rinnovo del contratto a termine o proroga del termine solo in presenza di una delle seguenti condizioni: esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività ovvero esigenze sostitutive; esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria;
- applicazione delle stesse limitazioni anche alla somministrazione a tempo determinato;
- riduzione del numero massimo delle proroghe del termine da 5 a 4;
- aumento da 4 a 6 dell’indennità minima e da 24 a 36 dell’indennità massima in caso di licenziamento illegittimo;
- aumento del contributo addizionale (1,4%) di 0,5% per ogni rinnovo.
Le nuove norme si applicano ai contratti sottoscritti successivamente all’entrata in vigore del decreto (14.07.2018), ovvero alle proroghe o ai rinnovi dei contratti in corso alla medesima data.
Le nuove norme non si applicano ai contratti a termine sottoscritti per lavori stagionali come definiti dal D.P.R. 1525/63 e dai CCNL.
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Prime Osservazioni Decreto Dignità
Leggi di più...DL Dignità: alcuni interessanti temi ancora oggetto di discussione
Nel corso dell’audizione tenuta al Senato del Ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, sono emerse alcune tematiche interessanti che potrebbero essere inserite nel Decreto Dignità immediatamente o in sede di conversione.
In primo luogo, vi è stata una apertura del Ministro del Lavoro alla reintroduzione dei voucher quantomeno per quattro categorie, vale a dire baby sitter, agricolo-stagionale, giardinaggio e pulizie. Sarebbe auspicabile l’estensione anche alle sale ricevimento, che si trovano a fronteggiare fluttuazioni improvvise di forza lavoro a seconda del numero molto variabile degli ospiti.
Nel corso dell’audizione è stato posto l’accento anche sul tema degli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato, anche perché li attuali bonus sud, neet e giovani non sono realmente decollati, in ragione dei requisiti molto stringenti, primo fra tutti l’insussistenza di un precedente rapporto a tempo indeterminato con qualsiasi datore di lavoro (presupposto certamente irragionevole ed ingiustificato, oltre che discriminatorio tra i disoccupati).
Ultimo punto di dibattito è stato quello relativo al lavoro somministrato, essendo emersa la necessità di una auspicata rivisitazione della disciplina contenuta nel Decreto Dignità, al fine di evitare la sostanziale “abolizione” del ricorso a questo tipo di figura negoziale.
Sarebbe, infine, fortemente opportuno, per evitare l’effetto certo di un maggiore turn-over di personale “precario”, rivedere anche le modifiche da apportare al contratto a tempo determinato magari mantenendo l’attuale limite massimo di 36 mesi ed introducendo l’obbligo della causale dopo i primi 24 mesi di rapporto (invece dei primi 12, come previsto dall’attuale testo del Decreto Dignità). Sotto questo aspetto, infatti, le aziende, dopo aver formato un dipendente per 24 mesi, troverebbero molto più complesso ed oneroso sostituirlo con altro personale “precario”; dopo soli 12 mesi, invece, sarebbe più semplice sostituire il dipendente invece che stabilizzarlo.
Leggi di più...Scarso rendimento reiterato: legittimo il licenziamento per giusta causa
La Suprema Corte, con sentenza n. 17685/2018, ha confermato la pronuncia dei Giudici di merito con cui era stato ritenuto legittimo, sia in primo che in secondo grado, il licenziamento di un dipendente che aveva impiegato 3,5 ore per effettuare una lavorazione che un operaio con analoga qualifica ed esperienza avrebbe effettuato in meno di mezz’ora, considerati, inoltre, quali elementi costitutivi del provvedimento espulsivo, tre precedenti disciplinari per condotte analoghe.
I Giudici di legittimità, inoltre, hanno ribadito l’importante principio secondo cui le sanzioni disciplinari sospese a seguito della proposizione, da parte del lavoratore, dell’arbitrato ex art. 7 L. 300/70, sino al loro eventuale annullamento devono essere considerate rilevanti ai fini della configurazione della recidiva prevista dal CCNL tra le esemplificazioni di giusta causa di recesso.
Cass. 17685 del 2018 (legittimo licenziamento g.c. per scarso rendimento)
Leggi di più...GMO, soppressione posto di lavoro, aumento del profitto e manifesta insussistenza ai fini della reintegra
La Suprema Corte, con sentenza n. 16702/2018, ha ribadito il principio secondo cui in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, integrato dalla riorganizzazione aziendale con soppressione di un posto di lavoro, ai fini della legittimità del recesso è sufficiente la prova dell’effettiva soppressione, restando irrilevante il motivo che ha determinato il datore di lavoro a procedere alla stessa (sia esso far fronte ad una crisi aziendale ovvero semplicemente aumentare la redditività di impresa).
I Giudici di legittimità precisano, inoltre, che, allorquando sia lo stesso datore di lavoro ad indicare, nella lettera di licenziamento, che la riorganizzazione è stata effettuata per far fronte ad una crisi aziendale, il recesso può essere ritenuto legittimo solo in presenza della dimostrazione della sussistenza della crisi stessa.
La mancata dimostrazione della situazione di crisi, tuttavia, in presenza della prova della effettività della soppressione del posto di lavoro, escluso, comunque, la tutela reintegratoria, in quanto, ai sensi dell’art. 18, comma 7, L. 300/70, il giustificato motivo oggettivo posto a fondamento del recesso non può certamente definirsi “manifestamente insussistente”.
In sintesi, in caso di recesso per gmo, costituito dalla riorganizzazione aziendale con soppressione del posto di lavoro, ai fini della legittimità del recesso, il datore di lavoro deve dimostrare:
- l’effettività della soppressione del posto di lavoro (e, dunque, insussistenza di successive assunzioni per l’espletamento delle mansioni connesse al posto soppresso), restando irrilevante il motivo che ha determinato la volontà di procedere alla riorganizzazione (salvo che esso non sia espressamente indicato nella lettera di licenziamento);
- il nesso di causalità tra il posto soppresso ed il lavoratore licenziato e, dunque, il rispetto dei criteri di correttezza e buona fede nella selezione del lavoratore da licenziare;
- l’impossibilità di ricollocazione del dipendente in altri posti disponibili in azienda (repechage).
Cass. n. 16702 del 2018 (irrilevanza profitto e soppressione posto di lavoro)
Leggi di più...Tentativo di conciliazione e decadenza dall’impugnativa di licenziamento
La Suprema Corte, con sentenza n. 14108/2018, ha precisato che qualora il lavoratore, dopo aver impugnato stragiudizialmente il licenziamento, promuova il tentativo di conciliazione e questo, espressamente accettato dal datore di lavoro, si concluda con esito negativo, dal momento della conclusione del procedimento riprende a decorrere l’originario termine di decadenza di 180 giorni per depositare il ricorso giudiziale.
In questa ipotesi, secondo i Giudici di legittimità, non può trovare applicazione l’art. 6, comma 2, L. 604/66 nella parte in cui dispone che «qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».
Ed invero, precisa la Suprema Corte, le norme in materia di decadenza devono essere interpretate restrittivamente e, di conseguenza, il termine “breve” di decadenza può operare solo qualora la conciliazione sia rifiutata dal datore di lavoro (esplicitamente o implicitamente attraverso il mancato deposito delle memorie nel termine di 20 giorni) ovvero qualora non venga raggiunto l’accordo in merito all’espletamento dell’arbitrato e non anche qualora qla procedura sia accettata ma non abbia un esito positivo.
In questa ultima ipotesi, invece, trova applicazione, a dire della Corte, l‘articolo 410, comma 2, del Codice di procedura civile che prevede la sospensione del decorso del termine di decadenza per tutta la durata del tentativo di conciliazione e per i 20 giorni successivi, con la conseguenza che, al termine di questi 20 giorni, riprenderà a decorrere il termine originario di 180 giorni sospeso per effetto della proposizione del tentativo di conciliazione.
Cass. 14108 del 2018 (tentativo conciliazione e decadenza)
Leggi di più...Approvato dal CdM il Decreto Dignità
Nella serata di ieri il Consiglio dei Ministri ha approvato il testo del Decreto Dignità che contiene importanti modifiche in materia di rapporti di lavoro.
In aggiunta rispetto alle bozze normative circolate negli ultimi giorni, pare sia stato disposto l’inasprimento delle sanzioni in caso di licenziamento illegittimo, attraverso l’innalzamento dell’indennità massima dalle attuali 24 a 36 mensilità e di quella minima da 4 a 6 mensilità.
Modifiche sostanziali sono state apportate alla disciplina dei contratti a tempo determinato, attraverso:
- la riduzione della durata massima complessiva da 36 a 24 mesi;
- la possibilità di ricorrere al contratto a termine acausale per un massimo di 12 mesi;
- l’obbligo, a partire dal secondo rinnovo, di giustificare l’apposizione del termine con una di queste tre ragioni: temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, nonché sostitutive; connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria; relative a lavorazioni e a picchi di attività stagionali;
- la riduzione del numero massimo delle proroghe, per l’intera durata dei 24 mesi, da 5 a 4;
- l’aumento del contributo addizionale dello 0,5% per ogni rinnovo, in aggiunta all’1,4% già in vigore.
Le nuove disposizioni trovano applicazione ai contratti a tempo determinato, compresi i rinnovi, sottoscritti successivamente all’entrata in vigore del decreto legge.
Gli stessi limiti previsti per i contratti a tempo determinato si applicano anche alle agenzie di somministrazione, ivi compreso il limite numerico di assunzione di dipendenti a termine del 20% rispetto al numero complessivo di dipendenti a tempo indeterminato occupati. Viene invece fatta salva la somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing).
http://www.governo.it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-8/9680
Leggi di più...Luci ed ombre della bozza del Decreto Dignità
Sono iniziate a circolare negli ultimi giorni le prime bozze del Decreto Dignità annunciato dal Ministro Di Maio. Dalla lettura delle stesse emergono alcune luci e molte ombre circa la idoneità delle proposte normative a raggiungere gli ambiziosi obiettivi dichiarati.
Certamente meritevoli risultano essere le iniziative volte a contrastare le delocalizzazioni produttive da parte di imprese che abbiano, negli anni precedenti, fruito di benefici ed agevolazioni statali, in quanto la fruizione di queste ultime è coerente che venga legata alla permanenza dell’impianto produttivo all’interno dello Stato “finanziatore”.
Molte ombre riguardano, invece, le paventate modifiche alla disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato e della somministrazione a tempo determinato, in quanto le misure prospettate, se attuate, invece di combattere il “precariato”, avranno come esclusivo effetto quello di accrescere l’instabilità lavorativa ed il precariato e di aumentare esponenzialmente il contenzioso.
Ed invero, l’esperienza del D.lgs. n. 368/01 insegna che la previsione di causali attraverso il riferimento a clausole aperte genera una proliferazione di contenziosi aventi esiti diametralmente opposti, così rimettendo alla sensibilità del singolo giudice la valutazione circa la idoneità o meno della causale eventualmente indicata a sostegno del rinnovo del contratto a tempo determinato.
La giurisprudenza formatasi con riferimento al D.lgs. n. 368/01 ha avuto esiti incerti, contrastanti e non unitari, così generando disparità di trattamento tra i lavoratori operanti nei diversi ambiti territoriali, a seconda dell’orientamento sviluppatosi in seno a ciascun Tribunale competente.
In sostanza, la previsione dell’obbligo di causale in caso di rinnovo del contratto a termine dopo i primi 12 mesi anziché prevenire il “precariato” determinerà semplicemente un maggior turnover di personale, accrescendo il numero dei precari del mondo del lavoro, in quanto il datore di lavoro, piuttosto che rimettere ad un Tribunale, con esiti incerti, la valutazione della legittimità o meno della causale posta a fondamento del rinnovo, preferirà, alla scadenza dei primi 12 mesi, sostituire il lavoratore con altro sempre a tempo determinato.
Con il sistema attuale, invece, il datore di lavoro che, ritenendo valido il lavoratore a tempo determinato, lo abbia occupato per tutti i 36 mesi, al termine del suddetto periodo, sicuramente procederà alla stabilizzazione del rapporto di lavoro, essendo irragionevole sostituirlo con altro dipendente a tempo determinato e sostenere, ex novo, i costi e i tempi di formazione.
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