Fallimento: competenza del Giudice del Lavoro per tutte le tutele previste dal novellato art. 18
La Suprema Corte, con sentenza n. 16443/2018, pronunciatasi per la prima volta sulla questione, ha statuito che, in caso di fallimento del datore di lavoro, competente per l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento e per l’individuazione della tutela applicabile tra quelle previste dal novellato art. 18 L. 300/70, ivi compresa quella indennitaria, è sempre il Giudice del Lavoro, con applicazione del rito ex art. 1, comma 47, L. 92/12.
Per giungere a tale conclusione, i Giudici di legittimità, prendono le mosse dalla consolidata giurisprudenza formatasi in materia secondo cui permane la cognizione del primo allorquando il lavoratore richieda una pronuncia di mero accertamento (come quella in ordine alla pregressa esistenza del rapporto di lavoro) ovvero una pronuncia costitutiva (quale la domanda di declaratoria di nullità di atti di cessione di ramo d’azienda, in funzione del ripristino del rapporto di lavoro con il cedente), restando, anche oin caso di fallimento, il Giudice del Lavoro quale giudice del “rapporto”; in caso contrario, in ossequio al principio della par condicio creditorum, l’accertamento dei diritti di credito nascenti dal rapporto di lavoro è rimesso alla cognizione del tribunale fallimentare, quale Giudice del “concorso”.
Ciò premesso, la Suprema Corte ribadisce la competenza del giudice del lavoro con riferimento alla domanda di reintegrazione per illegittimità del licenziamento, atteso che tale domanda si fonda sull’interesse del dipendente alla tutela della propria posizione all’interno dell’impresa, sia in funzione di una possibile ripresa dell’attività, sia per la coesistenza di diritti non patrimoniali e previdenziali, estranei alla par condicio creditorum, e propri del rapporto di lavoro.
Con riferimento, invece, alla tutela risarcitoria/indennitaria prevista dal novellato art. 18, poichè, per effetto della legge 92/2012, si è passati da una tutela indennitaria predeterminabile con certezza, perché parametrata alle retribuzioni “perse” dalla data di licenziamento a quella di reintegrazione, a una tutela indennitaria la cui quantificazione si radica su una «valutazione calibrata di elementi interni al rapporto di lavoro» (anzianità del dipendente, numero degli occupati…) «ovvero sulla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro», vale a dire «dati apprezzabili, per palese cognizione, dal giudice del rapporto», la Suprema Corte conclude per la competenza del giudice del lavoro a conoscere l’«entità dell’indennità risarcitoria», quale, appunto, giudice del rapporto (fermo l’onere del lavoratore di richiedere successivamente, al tribunale fallimentare, l’insinuazione al passivo dell’indennità risarcitoria così liquidata).
Per giungere a tale conclusione, la Suprema Corte, infine, sottolinea la differenza tra la domanda di accertamento del diritto di credito del lavoratore (che deve essere rivolta al Giudice del lavoro per le considerazioni sopra riportate) e quella avente ad oggetto “la verifica del diritto di (credito per la) partecipazione al concorso“, di cognizione esclusiva del Tribunale Fallimentare.
Cass. 16443 del 2018 (Fallimento e competenza per impugnativa licenziamento)
Leggi di più...Legittimo il licenziamento per giusta causa per rifiuto del trasferimento
La Suprema Corte, con sentenza n. 15885/2018, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato da un’azienda ad 11 lavoratori, a seguito del loro rifiuto ad ottemperare ad un trasferimento, con conseguente assenza ingiustificata dal posto di lavoro presso la sede ad quem.
Nel caso di specie, il trasferimento in sedi molto distanti da quella provenienza era motivato dalla soppressione dei posti di lavoro degli 11 dipendenti, per esternalizzazione della gestione della struttura presso la quale essi operavano.
In alternativa al trasferimento, inoltre, la società proponeva una risoluzione consensuale del rapporto con la sottoscrizione di un verbale di conciliazione, a fronte della corresponsione di un incentivo all’esodo.
I Giudici di legittimità hanno escluso che l’intera operazione configurasse un abuso, da parte del datore di lavoro, del diritto a trasferire i dipendenti, stante la sussistenza delle ragioni tecniche organizzative e produttive richieste dall’art. 2103 c.c., nonchè la legittima e trasparente prospettazione ai Dipendenti delle uniche due alternative esistenti a fronTe della soppressione del loro posto di lavoro.
Cass. 15885 del 2018 (legittimo il licenziamento per giusta causa per rifiuto del trasferimento)
Leggi di più...Il diritto di critica sindacale non può scadere in dileggio
La Suprema Corte, con sentenza n. 14527/2018, ha accolto il ricorso del datore di lavoro avverso la sentenza della Corte di merito che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento di tre dipendenti (rivestenti cariche sindacali) che avevano inscenato una macabra rappresentazione del funerale dell’amministratore delegato, ledendo la sua onorabilità professionale e la sua dignità personale, affermando che la messa in scena rientrava nel diritto di critica, seppur aspro, proprio dei rappresentati sindacali.
La Suprema Corte ha cassato la sentenza, ritenendo che la critica, in questo caso, fosse illecita, essendosi tramutata in vero e proprio dileggio alla persona, travalicando il «limite della tutela della persona umana richiesto dall’articolo 2 della Costituzione, che impone, anche a fronte dell’esercizio del diritto di critica e di satira, l’adozione di forme espositive seppur incisive e ironiche, ma pur sempre misurate» e tali da evitare di «evocare pretese indegnità personali».
Cass. 14527 del 2018 (diritto di critica sindacale e dileggio)
Leggi di più...Lecito il controllo sul pc del dipendente a tutela del patrimonio aziendale
La Suprema Corte, con la sentenza n. 13266/2018, ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente per sistematico uso del pc aziendale per finalità extralavorative, affermando, altresì, la legittimità di un’indagine retrospettiva informatica sull’utilizzo del computer, in quanto estranea al campo di applicazione dell’art. 4 L. 300/70.
In particolare, nel caso di specie, il lavoratore era stato licenziato per aver utilizzato sistematicamente il pc aziendale per attività ludiche. La prova del suddetto utilizzo era stata rinvenuta attraverso un’indagine retrospettiva sulle attività che il dipendente aveva compiuto avvalendosi del mezzo informatico in dotazione.
La Corte, nel valutare se la raccolta dei dati fosse stata effettuata in violazione dell’art. 40 L. 300/70, ha escluso la riconducibilità della fattispecie ai controlli a distanza disciplinato dalla norma statutaria, sul presupposto secondo cui l’indagine aveva riguardato condotte extralavorative e non l’esatto adempimento della prestazione ed era finalizzata alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro, vale a dire il patrimonio e l’immagine aziendali.
Di conseguenza, i Giudici di legittimità hanno ritenuto dimostrata la condotta addebitata e legittimo e proporzionato il recesso comminato dalla società.
Cass. 13266 del 2018 (lecito il controllo sul pc del dipendente a tutela dei beni aziendali)
Leggi di più...Sezioni Unite: nullo – e non meramente inefficace – il licenziamento comminato prima del superamento del comporto
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n. 12568/2018, hanno posto fine al contrasto sorto in seno alle Sezioni Semplici con riferimento alle conseguenze del licenziamento per superamento del periodo di comporto comminato prima della scadenza del comporto ma con effetti posticipati all’effettivo superamento.
In alcune pronunce, il licenziamento era stato ritenuto valido ma temporaneamente inefficace sino all’effettivo superamento del periodo di comporto.
In altre fattispecie, la Suprema Corte aveva ritenuto radicalmente nullo il licenziamento, in quanto comminato in violazione di una noma imperativa di legge, l’art. 2110 c.c., la quale sancisce il divieto di licenziamento per malattia, sino al superamento effettivo del periodo di comporto, come fissato dal CCNL applicato al rapporto di lavoro.
Le Sezioni Unite hanno preferito quest’ultima tesi, sul presupposto che i requisiti di validità del recesso devono già sussistere nel momento in cui lo stesso viene comminato.
Leggi di più...Legittima la trattenuta del TFR per risarcimento danni
La Suprema Corte, con la sentenza n. 10132/2018, ha ritenuto ammissibile la trattenuta del TFR del dipendente, effettuata dal datore di lavoro, a compensazione di un danno da condotta illecita che il dipendente stesso aveva causato all’azienda.
A dire dei Giudici di legittimità, la trattenuta, in queste ipotesi, deve essere qualificata come compensazione impropria, ammissibile anche al di là dei limiti previsti dal codice civile per le ipotesi di compensazione c.d. tecnica.
La Cassazione precisa che, nel caso di compensazione impropria, che si verifica allorquando le rispettive partite di debito e credito nascano da un rapporto unitario (in questo caso il rapporto di lavoro), l’accertamento contabile del saldo finale può essere compiuto anche ex officio dal Giudice, senza la necessità che venga proposta domanda riconvenzionale.
Di conseguenza, allorquando il lavoratore agisca per ottenere il pagamento del TFR trattenuto a compensazione del risarcimento dei danni, il datore di lavoro potrà eccepire, appunto, la compensazione impropria e spetterà al Giudice valutare la fondatezza delle relative posizione ed accertare il saldo finale.
Leggi di più...Legittimo il licenziamento per aumentare il profitto
La Suprema Corte, con sentenza n. 9147/2018, ha confermato l’orientamento ormai unitario ritornato in auge con la sentenza n. 25201/2016, secondo cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo integrato dalla soppressione di un posto di lavoro (anche con redistribuzione delle relative mansioni tra il personale ancora in forza) può essere legittimamente determinato anche dalla volontà del datore di lavoro di incrementare i profitti (e, dunque, di aumentare il benessere dell’impresa, quale elemento imprescindibile per una durevole e stabile permanenza sul mercato) e non obbligatoriamente dalla necessità di far fronte a situazioni sfavorevoli non contingenti (come, al contrario ritenuto da altro orientamento ormai decisamente minoritario).
A fondamento della valutazione espressa, i Giudici di legittimità pongono un argomento letterale, non facendo l’art. 3 L. 604/66, nel definire il giustificato motivo oggettivo, alcun riferimento a situazioni di crisi o di difficoltà economica, ed uno sistematico-costituzionale, rientrando il profitto tra gli obiettivi tipici dell’impresa, la cui libera iniziativa è tutelata dall’art. 41 Cost.
Cass. 9127 del 2018 (Aumento profitto e licenziamento gmo)
Leggi di più...Offese all’azienda su Facebook: licenziamento legittimo
La Suprema Corte, con la sentenza n. 10280/2018, ha confermato la statuizione con cui la Corte di Appello di Bologna aveva rigettato il gravame avverso la sentenza del Tribunale di Forlì, che aveva dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa di una dipendente che aveva denigrato il proprio datore di lavoro su Facebook.
In particolare, la lavoratrice era stata licenziata per aver pubblicato, sulla propria pagina Facebook, un posto del seguente tenore: “Mi sono rotta i c…. di questo posto di m….. e della proprietà”.
A fronte di tali espressioni offensive (qualificate come diffamatorie), sia i giudici di merito che quelli di legittimità hanno ritenuto:
- irrilevante il fatto che la donna non avesse specificato il nome del rappresentante della società, visto che il destinatario era facilmente identificabile;
- che la condotta fosse aggravata dal mezzo utilizzato, idoneo a diffondere l’offesa verso un numero potenzialmente illimitato di utenti.
Cass. 10280 del 2018 (diffamazione facebook e giusta causa)
Leggi di più...Soci Accomandatari ed iscrizione alla Gestione Commercianti
Con la sentenza n. 10087/2018, la Suprema Corte, ribadendo un precedente orientamento (Cass. nn.ri 3835/16 e 5210/17) ha statuito che l’iscrizione del socio accomandatario di sas nella Gestione Commercianti è legittima solo se l’Inps dimostra in giudizio l’espletamento, da parte di questi, di attività commerciale all’interno della società, in via abituale e prevalente.
A tal fine, proseguono i Giudici di legittimità, non è sufficiente la presunzione dell’espletamento di detta attività, essendo il socio accomandatario unico soggetto operante all’interno della società, dovendo, al contrario, l’Istituto fornirne in giudizio la dimostrazione effettiva.
Cass. 10087 del 2018 (accomandatario e gestione commercianti)
Leggi di più...Sopravvenuta inidoneità alla mansione e portata del repechage
La Suprema Corte, con sentenza n. 8419/2018, ha definito la portata dell’obbligo di repechage in caso di sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione, precisando che quest’ultimo può avere ad oggetto esclusivamente i posti di lavoro disponibili già esistenti nell’organizzazione aziendale, non potendo imporsi al datore di lavoro di stravolgere l’assetto organizzativo insindacabilmente adottato, perché ritenuto funzionale all’attività di impresa, al fine di creare ex novo un posto compatibile con lo stato di salute del dipendente divenuto inidoneo.
Applicando questo principio, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza con cui i Giudici del gravame, in riforma della sentenza di primo grado, avevano rigettato l’impugnativa di licenziamento del dipendente, in quanto il posto di lavoro da questi indicato come possibile repechage implicava anche l’espletamento di mansioni incompatibili con il suo stato di salute.
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