Repechage: nuova soluzione di “compromesso” dalla Cassazione
La Suprema Corte, con la sentenza n. 30259/2018, ha espresso due importanti principi in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il primo, che rappresenta una conferma dell’orientamento ormai consolidato in seno ai Giudici di legittimità, è quello secondo cui in caso di recesso per giustificato motivo oggettivo, la soppressione del posto di lavoro con redistribuzione delle mansioni tra il personale ancora in forza, già costituisce valida giustificazione del licenziamento ai sensi dell’art. 3 L. 604/66, senza possibilità, per il Magistrato, di indagare la finalità della scelta organizzativa compiuta, se diretta, in particolare, a far fronte a situazioni di crisi ovvero ad incrementare la redditività d’impresa.
Il secondo, invece, rappresenta una novità in tema di repechage rispetto al più recente orientamento formatosi dal 2016 in poi, secondo cui l’onere della prova dell’impossibilità di ricollocazione del dipendente è integralmente a carico del datore di lavoro, non sussistendo alcun onere di allegazione dei posti disponibili in azienda, da parte del lavoratore. Ed invero, nella sentenza in esame, la Suprema Corta ha stabilito che, qualora il lavoratore, pur non essendone processualmente onerato, indichi, comunque, i posti in cui avrebbe potuto essere ricollocato (mediante l’allegazione di nuove assunzioni nei suddetti posti), l’onere probatorio del datore di lavoro è limitato alla dimostrazione dell’impossibilità di repechage nei limiti del perimetro disegnato dalle deduzioni attoree.
Questa soluzione di “compromesso” elaborata dalla Suprema Corte dimostra, ancora una volta, la complessità della individuazione della corretta ripartizione degli oneri di allegazione e prova con riferimento ad un requisito che la legge non richiede ai fini della legittimità del recesso (se non nelle ipotesi tipizzate del lavoratore disabile o dichiarato inidoneo alle mansioni), che è di esclusiva creazione giurisprudenziale e rischia, quantomeno per le azienda di grandi dimensioni, se interpretato nel senso da ultimo prospettato dalla Cassazione, di rendere diabolica la probatio richiesta al datore di lavoro.
Cass. 30259 del 2018 (gmo soppressione posto e repechage)
Leggi di più...Il licenziamento entro l’anno dal matrimonio è discriminatorio solo per la donna
La Suprema Corte, con sentenza n. 28926/18, ha escluso una discriminazione legata al genere nelle tutele poste dall’articolo 35 del Codice pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/06), nella parte in cui prevede che la nullità del licenziamento «a causa matrimonio» – nel periodo decorrente dalla richiesta di pubblicazioni, seguita dalla sua celebrazione, fino ad un anno dopo la stessa – sia limitata alla sola lavoratrice donna.
In materia, invece, alcuni Tribunali di merito, tra cui il Tribunale di Milano (sentenza del 3 giugno 2014), ritenendo che la norma in esame fosse in contrasto con le norme anti-discriminatorie comunitarie, avevano dichiarato nullo il licenziamento per causa di matrimonio intimato a un lavoratore uomo nel periodo “protetto” sopra individuato.
I Giudici di legittimità dirimono, dunque, il contrasto sul punto sorto in seno ai Giudici di merito, affermando la legittimità della scelta legislativa limitare la nullità tipizzata dalla norma ai soli licenziamenti delle lavoratrici donne. Per giungere a tale conclusione, la Suprema Corte valorizza l’elemento storico della genesi dell’istituto, due pronunce della Corte costituzionale (in particolare, la sentenza n. 61 del 28 gennaio 1991) e una sentenza della Cedu (Konstantin Markin c. Russia [GC], n. 30078/06), osservando come la disposizione in esame, lungi dall’essere discriminatoria, sia assolutamente legittima, in quanto rispondente a una diversità di trattamento giustificata da ragioni, non di genere, ma di tutela della maternità, costituzionalmente garantita alla donna, in funzione della «speciale adeguata protezione» assicurata alla madre e al bambino dall’articolo 37, comma 1, della Costituzione.
Partendo da tale considerazione la Corte osserva che la protezione accordata dalla disposizione in esame non è in contrasto con la normativa antidiscriminatoria europea, né con l’articolo 33, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali della Ue (secondo cui «al fine di poter conciliare vita familiare e professionale, ogni persona ha diritto di essere tutelata contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità (…)».
In definitiva, secondo la Cassazione la normativa sulla nullità del licenziamento in costanza di matrimonio è volta tutelare non un genere rispetto ad un altro ma «la complessità del rapporto tra madre e figlio nel primissimo periodo di vita, con riguardo non solo ai bisogni più propriamente biologici, ma anche alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo collegate allo sviluppo della personalità del bambino».
La pronuncia della Corte di Cassazione, tuttavia, sembra tralasciare due aspetti che avrebbero potuto condurre a conclusioni opposte, vale a dire:
- l’esistenza di una norma specifica (art. 54 D.lgs. 151/2001) volta a tutelare la lavoratrice madre contro il licenziamento nel periodo di gestazione e sino al compimento di un anno del bambino, giustamente operante solo nei confronti delle donne, per ragioni biologiche prima che giudichi e sociali;
- l’equiparazione, a seguito dell’entrata in vigore delle norme sulle unioni civili, di queste ultime al matrimonio, in tutte le norme del nostro ordinamento che fanno riferimento all’istituto in esame.
Cass. 28926 del 2018 (licenziamento uomo entro anno dal matrimonio)
Leggi di più...Alberto Teta con Amgas nella ristrutturazione del debito
Alberto Teta ha assistito Amgas nella sottoscrizione, in data 31 ottobre, di un accordo di risoluzione anticipata degli accordi di ristrutturazione del debito ex articolo 182-bis della legge fallimentare, omologati nel 2011 con i creditori finanziari Bper Banca e Unicredit.
In particolare Amgas è stata assistita nella fase delle trattative e nella sottoscrizione dell’accordo, mentre le banche sono state assistite da Giovanardi Pototschnig, con Linda Morellini e Cesare Severini.
La risoluzione anticipata consentirà la continuazione e la programmazione delle attività di gestione nell’ambito di un contesto risanato.
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Leggi di più...L’Inps richiede “a tappeto” il pagamento del contributo NASPI: le contromisure
Nell’ultimo mese, sono molteplici le richieste pervenute alle aziende, da parte dell’Inps, di pagamento del contributo NASPI, stante l’appropinquarsi della scadenza del termine prescrizionale quinquennale, per i licenziamenti intervenuti nel 2013, anno di entrata in vigore dell’obbligo contributivo in questione.
L’Inps sta inviando gli avvisi bonari “a tappeto” senza verificare l’effettiva sussistenza dell’obbligo di contribuzione in capo alle aziende, stante l’esistenza di alcune eccezioni relative a fattispecie molto diffuse nella prassi.
Si fa riferimento, in particolare, ai sensi dell’art. 2, comma 34, L. 92/12:
- ai licenziamenti per fine cantiere nell’edilizia;
- ai licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Queste eccezioni, inizialmente previste in via temporanea fini al 2015, con la Legge di Stabilità del 2017 sono divenute definitive e strutturali.
L’Inps, tuttavia, anche in queste ipotesi, con il messaggio n. 3933/2018 ha precisato che spetta al datore di lavoro fornire la prova della riconducibilità del licenziamento ad una delle fattispecie di esenzione dal pagamento del contributo previste dalla norma sopra richiamata, qualora nella comunicazione di cessazione non siano stati indicati i codici di esonero individuati nel messaggio n. 4269/2016.
Per il futuro, dunque, per evitare richieste infondate da parte dell’Inps è opportuno indicare, nella comunicazione di cessazione, i codici di esenzione indicati nei vari messaggi Inps, oltre a precisare, nelle note, la motivazione connessa all’esonero: “fine cantiere” o “cambio di appalto”.
Mentre, per il passato, qualora l’Inps non ritenga sufficienti le prove fornite in via amministrativa, l’unica soluzione per prevenire l’emissione dell’avviso di addebito, è la proposizione di un ricorso giudiziale in accertamento negativo volto a dimostrare la non debenza delle somme richieste.
Leggi di più...Sanzioni diverse in caso di violazione del contingentamento per i somministrati e per i dipendenti a termine diretti
Gli artt. 23 e 38 del D.lgs. n. 81/15 disciplinano le sanzioni applicabili in caso di violazione della percentuale massima dei lavoratori a termine direttamente assunti e dei lavoratori somministrati a tempo determinato.
- In particolare, con riferimento ai lavoratori a termine assunti direttamente, in caso di violazione del limite quantitativo previsto dalla legge (20%, ovvero quello diverso pattuito in sede di contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali), la norma (articolo 23) esclude la trasformazione del contratto in rapporto a tempo indeterminato, prevedendo solo una cospicua sanzione amministrativa pecuniaria:
1. pari al 20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni, se in violazione del limite percentuale è stato assunto un solo lavoratore;
2. pari al 50% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale è superiore a uno.
- Qualora, invece, la violazione abbia ad oggetto il limite massimo di lavoratori somministrabili a tempo determinato (30%, compresi i lavoratori a termine direttamente assunti, ovvero la diversa percentuale pattuita in sede di accordi collettivi a qualsiasi livello) o a tempo indeterminato (20% dei lavoratori a tempo indeterminato assunti direttamente dall’utilizzatore, ovvero la diversa percentuale pattuita in sede di accordi collettivi a qualsiasi livello), invece, ai sensi dell’art. 38, il lavoratore potrà richiedere, anche solo nei confronti dell’utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dirette dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione. In queste ipotesi, il giudice, inoltre, accertata la violazione, dovrà anche condannare l’utilizzatore al risarcimento del danno, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, del comportamento e delle condizioni delle parti. Le somme corrisposte dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha usato la prestazione fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. La violazione delle norme in materia di somministrazione, inoltre, determina anche l’irrogazione di sanzioni amministrative nei confronti dell’utilizzatore di importo variabile tra 250 e 1.250 euro).
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Licenziabile il lavoratore che rifiuta l’espletamento di mansioni inferiori
La Suprema Corte, con sentenza n. 24118/2018, ha ribadito il principio secondo cui costituisce giusta causa di licenziamento il reiterato rifiuto di espletare mansioni inferiori al livello di inquadramento posseduto, allorquando il suddetto espletamento viene richiesto dal datore di lavoro solo in via residuale rispetto all’orario di lavoro giornaliero.
Sulla scorta di tale principio, i Giudici di legittimità hanno accolto il ricorso proposto da un datore di lavoro avverso la sentenza dei Giudici di Appello che avevano annullato il licenziamento di una cuoca che si era reiteratamente rifiutata di espletare le mansioni di distribuzione dei pasti, in quanto non rientranti nel suo livello di inquadramento.
In particolare, la Corte di Cassazione ha precisato che l’eccezione di inadempimento del lavoratore è legittima solo a fronte di un totale inadempimento, da parte del datore di lavoro, ai propri obblighi di adibire il lavoratore a mansioni rientranti nel proprio livello di inquadramento e non già, come nel caso di specie, allorquando al dipendente venga richiesto l’espleamento fi mansioni inferiori solo in via residuale.
Cass. 24118 del 2018 (rifiuto svolgimento mansioni inferiori e licenziamento)
Leggi di più...Contratto di solidarietà e licenziamento per gmo
La Suprema Corte, con sentenza n. 23022/2018, ha ribadito il principio secondo cui, in vigenza del contratto di solidarietà differivo, è precluso solo il licenziamento collettivo ma on anche il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, consistente in una riorganizzazione aziendale con razionalizzazione delle risorse, al fine di migliorare la produttività e di riequilibrare la situazione economico finanziaria.
In particolare, precisano i Giudici di legittimità, al datore di lavoro è precluso solo il licenziamento collettivo, vale a dire quello intimato al fine di eliminare l’esubero del personale, ma non anche il licenziamento individuale, ancorché plurimo, per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3, l. n. 604/1966, che è correlato non già ad una riduzione dell’attività produttiva ma ad una più intensa utilizzazione delle forze lavorative tesa a migliorare la produttività e la situazione economico-finanziaria dell’azienda (Cass. 23 gennaio 1998, n. 637).
La Suprema Corte, sulla scorta di tali principi, nella fattispecie sottoposta al suo vaglio, ha, dunque, rigettato il ricorso del lavoratore, avendo, peraltro, il datore di lavoro dato dimostrazione, nei precedenti gradi di giudizio, dell’effettiva soppressione del posto di lavoro del licenziato e dell’impossibilità del repechage.
Cass. 23022 del 2018 (contratto solidarietà e licenziamento gmo)
Leggi di più...Esecuzione consapevole di un ordine illecito: licenziato!
La Suprema Corte, con sentenza n. 23600/2018, ha statuito che una condotta illegittima, pur se posta in essere in esecuzione di un ordine proveniente da un superiore gerarchico, legittima il licenziamento per giusta causa per violazione dell’obbligo di diligenza e fedeltà, qualora il dipendente sia in grado di comprendere l’illegittimità di tale ordine.
In particolare, nella fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte, il dipendente, licenziato per giusta causa per avere contabilizzato alcuni lavori, in realtà non eseguiti dalla società, aveva addotto a giustificazione della propria condotta l’aver ricevuto un ordine in tal senso dal proprio superiore gerarchico, nell’ambito di una riunione a cui avevano partecipato altri colleghi.
In sede di merito, le corti territoriali avevano accolto il ricorso del lavoratore, rilevando come l’errata contabilizzazione di lavori non eseguiti fosse conseguita a un ordine impartito dal superiore, al fine di inserire alcuni metri di tubature lineari all’interno della cartografia aziendale e nel patrimonio della stessa, in quanto unica possibilità di aggiornamento tardivo di queste informazioni che non erano state registrate al tempo dell’effettiva esecuzione dei lavori di ristrutturazione.
Alla luce di queste circostanze, la Corte d’appello confermava la statuizione del primo giudice di illegittimità del licenziamento, sulla scorta dell’assenza di colpa o dolo in capo al lavoratore, che si era limitato a eseguire alcune direttive del superiore, senza qualsivoglia intento di danneggiare il datore di lavoro.
Investita della questione, la Corte di cassazione ha anzitutto ribadito l’inapplicabilità ai rapporti tra soggetti privati (compreso quello di lavoro) della scriminante di cui all’art. 51 c.p., rivolta a chi commette fatti illeciti nell’esecuzione di un ordine ricevuto dalla pubblica autorità. Di conseguenza, la corte, nell’accogliere il ricorso del datore di lavoro, ha rilevato i giudici di merito erroneamente avevano focalizzato la loro valutazione sul solo rapporto gerarchico tra chi aveva dato e ricevuto un ordine, senza indagare anche il grado di divergenza dello stesso ordine rispetto ai principi e ai vincoli dell’ordinamento e il fatto che lo stesso fosse o meno conosciuto e conoscibile dal dipendente.
Nel caso specifico, hanno osservato i giudici di legittimità, il lavoratore era evidentemente in grado di riconoscere autonomamente la natura illegittima della condotta richiestagli dal superiore e, pertanto, avrebbe potuto (e dovuto) opporre a tale richiesta un rifiuto, o quantomeno un ostacolo. A nulla in questo senso rileva il fatto che non vi fosse una procedura alternativa idonea a consentire l’aggiornamento tardivo della cartografia e del patrimonio aziendali in quanto, sottolinea la Corte, l’intervento umano può modificare il funzionamento delle tecnologie informatiche preposte a tali tipi di registrazioni. Ben avrebbe potuto il dipendente, dunque, suggerire un intervento sui dispositivi tecnologici aziendali piuttosto che ottemperare a un ordine avente natura illecita.
È confermato dunque il licenziamento per giusta causa comminato al lavoratore, sul quale infatti la società non può essere effettivamente in grado di riporre fiducia per il corretto adempimento delle proprie prestazioni, essendosi quest’ultimo «posto supinamente, ove anche non intenzionalmente, in condizioni di violare in modo ripetuto i doveri di diligenza e fedeltà», violando le procedure definite dal datore di lavoro allo scopo di dare seguito ad un ordine al quale, invece, avrebbe dovuto opporre un legittimo rifiuto.
Cass. 23600 del 2018 (ordine illecito superiore e giusta causa)
Leggi di più...Contesto ambientale di illegalità: no al licenziamento per giusta causa
La Suprema Corte, con sentenza n. 23878/2018, ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa di un impiegato commerciale per violazione delle regole aziendali e dei codici di condotta interni, in quanto le pratiche commerciali spregiudicate e contrarie alla disposizioni aziendali erano imposte dai vertici aziendali per aumentare il fatturato.
In particolare, secondo i Giudici di legittimità, le condotte addebitate al ricorrente rappresentavano semplicemente la prassi in uso in una determinata area territoriale del datore di lavoro, in quanto non solo legittimate ma addirittura imposte dai superiori gerarchici e finalizzare all’aumento delle vendite.
Di conseguenza, prosegue la Corte, la violazione delle regole aziendali, in quanto sollecitata dai superiori gerarchici, non poteva in alcun modo assurgere a giusta causa di licenziamento, per violazione della regola della proporzionalità.
la Suprema Corte ha, dunque, confermato la pronuncia dei giudici di appello di illegittimità del licenziamento e reintegra del lavoratore nel posto di lavoro.
Cass. 23878 del 2018 (pratiche scorrette conformi a contesto ambientale)
Leggi di più...Licenziamento collettivo: legittimo criterio di scelta della vicinanza alla pensione anche se esteso in area estranee al ridimensionamento
La Suprema Corte, con la sentenza n. 24755/2018, ha sancito la legittimità del criterio della prossimità alla pensione concordato in sede di accordo sindacale, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo.
La C0rte, inoltre, ha precisato che tale criterio conserva la sua legittimità anche se è applicato a tutta la platea aziendale e non al solo settore in cui era stata registrata la situazione di eccedenza, secondo quanto indicato nella comunicazione di avvio della procedura.
sotto questo aspetto, in particolare, i Giudici di legittimità sottolineano la non decisività del dato per cui la comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo faccia riferimento a una specifica area aziendale, in quanto il criterio di scelta concordato con la parte sindacale può ben applicarsi trasversalmente a tutta la realtà produttiva, senza che ne derivi un utilizzo strumentale dei poteri collegati alla riduzione di personale.
Secondo la Corte, in sostanza, se la verifica sulla sussistenza della riorganizzazione aziendale è delimitata all’area indicata nella comunicazione iniziale alle associazioni sindacali, il criterio di scelta della possibilità di prepensionamento può ben essere misurato con riguardo al personale di tutto lo stabilimento.
A conforto di questa conclusione la Cassazione valorizza la circostanza per cui il criterio della prossimità al trattamento pensionistico consente di ridurre al minimo l’impatto sociale della riorganizzazione, salvaguardando i lavoratori che non potrebbero beneficiare, a seguito del licenziamento per riduzione di personale, della protezione sociale garantita dal prepensionamento.
Cass. 24755 del 2108 (licenziamento collettivo e criterio di scelta prossimità alla pensione)
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